E’ interessante analizzare la questione su chi decide il mercato dell’Arte. Chi fa i prezzi? Chi decide la fortuna o la sfortuna di un artista? Forse la qualità, la critica, la capacità comunicativa e perché no, l’investimento emotivo ed economico dell’artista stesso? Forse tutto questo.
Da sempre le cause che hanno fatto di un movimento artistico la fortuna o la sfortuna sono molteplici, sicuramente il tempo è un ottimo sfoltitore di quelli che sono artisti di moda nel breve periodo, ma che non sopravvivono nel lungo. Quindi c’è effettivamente una selezione di opere oggettiva, ma è sempre una selezione fra gli artisti che i galleristi, i critici hanno già selezionato prima.
Potrebbe essere questa una ragione per cui negli ultimi anni si assiste ad una produzione artistica non particolarmente interessante sotto un profilo critico-sociale: l’Arte non è il nostro presente, lo ignora. Si ripiega su una qualità estetica poche volte innovativa, una ricerca che però avverte l’assenza di qualcosa, un soggetto che come un fantasma non si manifesta mai pienamente, anzi nascosto, filtra in qualche opera marginalmente, appunto perché nascosto, sfuggendo ai cassatori di opere artistiche pur non essendo in tono con lo stile acritico del nostro tempo.
George Grosz (1893 -1959), pittore tedesco fu uno dei componenti della Nuova Oggettività, movimento di inizio secolo che esteticamente comprendeva esperienze futuriste, cubiste e aveva una fonte vitale nei soggetti del realismo ma con una maggiore e aspra capacità critica.
Le sue tematiche che accomunavano artisti come Otto Dix ed esperienze espressioniste, si rivelarono causa di problemi politici-legali nel periodo dopo la prima guerra mondiale quando lo stesso Grosz fu arrestato con l’accusa di incitamento all’odio di classe, vilipendio alla religione e ingiurie contro le forze armate oltre che oltraggio al pudore. C’era in Germania un manipolo di artisti che non si rassegnava a percorrere la strada imboccata dalla politica che vedevano oscura e fallace. Come molti altri, Grosz emigrò negli stati uniti nel 1933, alle soglie del Nazismo, restare per lui era diventato pericoloso.
La prima produzione di Grosz è caratterizzata da una spiccata influenza futurista nelle ambientazioni scenografiche della metropoli ed il movimento vorticoso dei molti personaggi: è in atto la Prima Guerra Mondiale, Grosz ne descrive la drammaticità metropolitana in “Explosion”, “Metropolis”(1917), “I Funerali di Oskar Panizza”(1917), dove l’atmosfera cupa e il massiccio impiego di contrasto tra rosso e nero, contestualizzano ogni avvenimento all’interno di una situazione angosciante. La guerra travolge la società, l’economia, anche i sentimenti sono frantumati da personaggi femminili che in un frangente d’emergenza, sembrano favorire il dio denaro (“Suicide”, “The Lovesick Man” del 1916) all’amore puro.
Con la fine della Guerra, lo stile di Grosz si evolve, i personaggi sono interpretati attraverso un disegno semplice, caricaturale, a volte sconcio, però sempre feroce e polemico che gli costa denunce e prigione.
La situazione economica tedesca è catastrofica, i suoi quadri sono testimonianza di quello che fu la preparazione del periodo più buio della storia d’Europa, una disillusa visione della società corrotta nei costumi e nella politica, soprattutto negli ideali, dominata dalla brama di denaro che scarseggia e dall’ipocrisia delle classi dominanti che travolgono nel loro disegno anche le classi più povere.
Banchieri, prelati, politici, Grosz non risparmia nessuno e visto l’evolversi degli eventi, ne ha tutti i motivi.
“A Winter’s Tale”(1919), “Daum Marries Her Pedantic Automaton George” (1920), “Eclipse Of Sun”(1926), “Berlin Streetscene”(1930), sono opere dove ad una decadenza dei sentimenti si associa una critica politica fortissima.
Lo stile mutevole che caratterizza la sua pittura fa di lui un pittore multiforme.
La visione ironica anche se amara, lascia il posto ad una più pessimista visione apocalittica sul finire del secondo conflitto mondiale. Preannunciata in “Glad to be back” del 1943, la disfatta scheletrica, con le sembianze della morte, si riaffaccia alla luce del sole per cogliere i suoi frutti.
L’ evoluzione della pennellata più libera e il disegno più disinvolto, mostrano un Grosz ancora cambiato, proiettato verso una pittoricità più intensa ed emotiva, ammorbidito dalla rassegnazione del conflitto ormai in corso ma non nei toni aspri nei confronti dei temi trattati.
“Chain, Or, Hitler In Hell” e “Il Sopravvissuto” del 1944, “The Pit” e “Peace” del 1946, “L’Uomo Che Grida Ballando” del 1949, mostrano una maturità artistica ormai conclamata in netto contrasto con la drammaticità esistenziale dei contenuti.
Grosz recupera le caratteristiche tecniche di una pittura più classica nelle ombre, nelle luci, nella composizione mantenendo la coloristica espressionista, abbandonando lo stile caricaturale, grottesco e descrivendo con maggiore cura realistica i dettagli in un contesto comunque surreale. I suoi quadri risultano di maggior impatto emotivo a discapito di una interpretazione puramente razionale e costruita. Gli esiti della guerra appaiono in tutto il loro orrore nel linguaggio universale della figurazione, chiari, terribili.
Grosz l’aveva preventivato e negli anni posteriori al ‘45 non gli resta che raccogliere nelle tele i resti di un’Europa disfatta.
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