Non sempre si riesce a trovare un senso alle installazioni oppure molte installazioni non hanno senso di esistere, se non per l’appagamento dell’artista che le ha progettate.
L’Istallazione è un fenomeno ormai storicizzato nella storia dell’Arte, usato comunemente da moltissimi artisti, ma anche da presunti tali. Non si deve in verità obbligatoriamente possedere alcuna dote artistica per realizzare una installazione, è possibile realizzarle senza nessuna manualità, nessuna conoscenza tecnica artistica, semplicemente ci si può sbizzarrire accostando materiali e oggetti come meglio si crede, un senso, se il risultato non ce l’ha, o ce l’ha solo nella mente dell’artista, lo si può sempre trovare.
Il paradosso dell’Arte contemporanea è appunto questo, tutti possono essere artisti perché per fare Arte contemporanea non è necessario avere in sé capacità artistiche. Provate ad ammucchiare oggetti casualmente in una stanza, questa sarà un’Istallazione e se a qualche critico o gallerista piacerà, voi sarete artisti.
Non è proprio così ovviamente, l’Arte riconosce l’Arte, l’artista riconosce l’artista, il gallerista, il critico vero amante dell’Arte riconosce l’opera d’Arte, il collezionista o l’amante disinteressato dell’Arte anche.
Questa introduzione è necessaria per purificare la mente dalla sensazione sgradevole che a volte ci coglie all’uscita di mostre di Arte contemporanea in cui l’Istallazione, protagonista impera nelle cattedrali messe a disposizione dei capricci di artisti o presunti tali, da dove si esce non con un arricchimento interiore ma con un senso di vuoto.
Non è il caso di Chiharu Shiota, artista Giapponese nata nel 1972 ma residente a Berlino, presente alla 56° edizione della Biennale di Venezia.
In Italia aveva già realizzato installazioni in altre occasioni : Firenze, Centro Cultura Contemporanea di Palazzo Strozzi nel 2009 e Lucca, Tenuta Dello Scompiglio “A Long Day” nel 2014.
Gigantesche ragnatele di lana nera, intrecciata, aggrappata alle pareti fino a raggiungere la copertura di parte degli ampi saloni bianchi e semivuoti, formavano percorsi obbligati per visitatori che potevano vedere la trama avviluppare oggetti di uso comune, tavoli, sedie, porte formando un paesaggio incantato quasi rarefatto, simbolico di ricordi affioranti dalle nebbie della memoria.
Altamente suggestive, le sue istallazioni sono veri e propri quadri tridimensionali, ci evocano sensazioni particolari, la possibilità di poterci addentrare in ambienti che sembrano ostili e minacciosi ma sono in realtà stabilmente concentrati su se stessi e permettono docilmente il passaggio.
Già allieva di Marina Abromovic, l’artista Giapponese confessa di essere stata influenzata più che dalla sua cultura, dalle sue esperienze di vita. Particolarmente significativo è stato l’incendio della casa che all’età di nove anni ha vissuto in prima persona. Non si può che cogliere un collegamento tra il risultato estetico veramente interessante e l’ambiente annerito in questo caso dal fumo di una casa dopo l’incendio.
Chiharu Shiota per la Biennale di Venezia presenta invece al padiglione Giapponese “The Key In The Hand”, l’impressionante groviglio di fili tipico dei suoi lavori, questa volta però di colore rosso.
L’evoluzione del suo lavoro è evidente, si distacca da una pura emotiva trasposizione della sua pulsione principale, dal ricordo della rievocazione esteticamente attraente ma personale per arrivare a una rappresentazione più attuale, universale, dove i fatti di cronaca contemporanea, la visione sociale e politica si riversano dando vita a una installazione esteticamente interessante, particolare ma funzionale a descrivere un dramma contemporaneo, a cercare di darne una spiegazione, a cercare di trovarci un senso, possibilmente positivo.
Così il soffitto della sala messa a sua disposizione sparisce e gronda di innumerevoli fili di lana rossi, intrecciati, annodati, simboli di esistenze, storie, individui che si incrociano e danno vita a quella immensa tela che è il nostro universo emotivo e sensibile di relazioni sociali.
Ma l’opera di Chiharu Shiota si arricchisce di altri simboli, appesi ai miliardi di fili di lana ci sono una quantità infinita di chiavi, diverse nel colore e nella forma. L’artista le ha raccolte precedentemente con una sua iniziativa che richiedeva l’invio di qualsiasi tipo di chiave da ogni parte del mondo, per poterle impiegare, valorizzate, mostrate in un suo lavoro.
Una immensa trama rossa costituisce il soffitto dal quale pendono chiavi, annodate, ma che al minimo sforzo possono essere prese e quasi confluiscono nei grandi barconi in legno consumato posti sotto o forse più che confluire, sembrano fuoriuscire da questi.
E’ troppo scontato riportare l’analisi della sua installazione nel contesto contemporaneo, in quella situazione surreale che i paesi occidentali europei stano vivendo da ormai molti anni. Troppo evidente l’allusione alle barche, ai gommoni stracolmi di profughi che incerti solcano il mar Mediterraneo con il loro carico di speranze, umanità e a volte di fatali disgrazie. Troppo semplice collegare questi fili rossi, colore vitale ed evocativo, queste chiavi alle vite provenienti da altre parti del mondo che arrivano a noi come nuovo sangue per confluire in un continente forse ricco di denaro ma arido di umanità.
Chiharu Shiota ci mostra la sua interpretazione dell’esodo, dell’immigrazione, di quest’ondata umana che sta travolgendo come non mai le nostre vite e nel farlo, ci mostra la sua parte positiva, forse perché anche lei esule, forse perché così può essere, forse perché così vorrebbe che fosse. L’artista supera la condizione di disagio che spesso è avvertita, la paura e fornisce una sua visione dei clandestini, dei profughi e rifugiati scampati da paesi e stili di vita diversi dai nostri e li presenta come chiavi, ovvero possibilità, fornite a noi che li accogliamo per reinterpretare attraverso di loro il nostro destino, completarlo, realizzare quello che non ci è stato possibile fare nel nostro ambiente, con la nostra gente.
Una marea umana ci giunge con tante speranze e ci si offre, indifesi, pronti ad essere inseriti nel nostro ambiente come più ci aggrada, nel modo che riteniamo più consono e noi, non riusciamo a trovare questo modo, d’altra parte non riusciamo a gestire neanche noi stessi che da sempre siamo qui.