Tra gli esponenti più illustri di quello che fu definito “Tachisme”, troviamo Jean Fautrier. Il “Tachisme” è la denominazione che P.Guéguen nel 1951 adottò per descrivere tendenzialmente la pittura di macchie (tache) dei pittori francesi nel linguaggio Informale e Astratto.
Jean Fautrier nasce in Francia (1898-1964), vive alcuni anni a Londra dove inizia un percorso figurativo affascinato dagli sconvolgimenti pittorici, atmosferici di Turner, fino ad orientarsi verso una progressiva disgregazione delle forme che prelude all’Informale.
Dal 1943 al 1945 è in Francia, dove prende parte alla resistenza. Di questo periodo è la sua produzione più entusiasmante. Testimone della prigionia dei partigiani francesi, inizia a dipingerne la tragica essenza.
Fautrier, rifugiatosi in un ospedale psichiatrico, può osservare quello che accade nella vicina prigione e con sentimento drammatico, dipinge non tanto la forma o le scene, quanto il pathos esistenziale che emanano. Nascono così le sue “Têtes d’otages”, la serie di dipinti che lo ha reso celebre.
Le teste degli ostaggi, così tradotto, sono la descrizione emotiva della tragedia che si svolge sotto i suoi occhi. Fautrier cerca una sintesi emozionale che parte da forme vagamente ovoidali umanoidi, ma da cui i lineamenti sono cancellati, alterati, assenti.
L’espressione è sostituita da segni, a questa preferisce far risaltare le ferite sui volti, striature rosse o violacee, cicatrici dell’anima oltre che del corpo, composte da una matericità palpabile, grossolana, ottenuta con l’aggiunta di materie varie al colore tra cui colla, segatura e altro. L’impasto grottesco è poi spalmato con spatole su fogli o tela.
Come può un artista impossibilitato a fare qualcosa, documentare lo sgomento che suscitano quelle situazioni? Fautrier scarta l’ipotesi razionale descrittiva, si affida alla devastazione delle forme, all’incontrollato materico colore che nevralgicamente riempie gli spazi, rimarca i bordi delle figure quasi a sottolineare lo svuotamento avvenuto delle “têtes d’otages”, di quegli uomini svuotati di umanità e riempiti di frustrazioni e dolore.
Le sue figure assumono le connotazioni di teschi perlacei, teste a cui è tolto ogni caratteristica personalizzante, distinguibili per le diverse qualità di ferite inferte.
Ci sono volte in cui le parole non riescono a descrivere situazioni, stati d’animo in modo efficace, così il disegno, così la pittura, l’illustrazione. L’Informale va a coprire queste mancanze, lacune dove la sensibilità dell’artista riesce a ricreare, libera da schemi obbligati, gli stati emozionali vissuti in modo intenso, reale.
Fautrier è un maestro in questo, la sua trasposizione artistica riesce a ricreare l’angoscia di lui che osserva e di loro, i prigionieri che inconsapevoli sono portatori di un macabro messaggio, esempio di quanto l’uomo può essere inumano.
Il messaggio artistico delle opere di Fautrier è chiaro: non ci può essere una pittura Informale che non abbia alla base una emotività scatenante potente, travolgente. Il messaggio umano di Fautrier è altrettanto chiaro, così evidente che non c’è bisogno di scriverlo.