Gli U.S.A. sono da sempre la patria dell’eccesso, di ciò che è grande, luminoso, colorato.
L’Arte made in U.S.A. non sfugge a questi connotati, dall’era dei panini giganteschi di Oldenburg, alle ripetizioni seriali di Warhol, senza scordare le immense tele astratte di Pollock, le incredibili adunate di migliaia di persone nude nelle foto di Spencer Tunick, fino alle moderne sculture di Koons, luccicanti, dorate o fucsia.
L’Arte caratteristica made in U.S.A. si nutre di trovate geniali nella loro semplicità esaltate all’eccesso da sempre, a meno che non sia iperrealista, anche se a pensarci bene solo negli States poteva nascere una corrente artistica così eccessivamente dedita alla perfetta riproduzione di una foto da diventare quasi inutile perché mera copia.
In questo contesto si inserisce come il cacio sui maccheroni lo scultore Jonathan Prince con le sue opere dalla struttura già sfruttata e minimale se non fosse per l’arricchimento di colori e scelte di materiali che ne fanno dei veri gioielli dal diametro che a volte supera il metro.
La materia di base che usa è l’acciaio, con cui tende a formare strutture dai lati morbidi o mossi come onde, erosi, deformati come budini.
Il colore fa il resto, con vari espedienti e materiali tra cui rivestimenti di uretano, Prince li colora, li rende vivi, riflettenti e semitrasparenti, di una luce cangiante a seconda del punto di osservazione.
Oggetti solidi assumono quindi la qualità visuale delle onde marine, di gigantesche caramelle gommose che ci propongono uno spettacolo nell’osservarli nel loro solido, continuo mutamento illuminante.