Riapre il già noto Museo di Arte Contemporanea “Luigi Pecci” di Prato, con la mostra curata dal nuovo direttore Fabio Cavallucci: “La Fine del Mondo”.
Chiuso da qualche anno, il museo inaugurato nel 1988 mostra un nuovo scintillante look, frutto del progetto dell’olandese Maurice Nio, a forma di disco volante dove spicca un’antenna “captatrice di emergenze artistiche”. Fin dalla sua primordiale progettazione di Italo Gamberini, il museo si presentava già bene con i suoi 3.200 metri quadrati di superficie espositiva, completo di biblioteca, teatro all’aperto, cinema, giardino, pub e ristorante.
Gli artisti in mostra:
Adel Abdessemed, Jananne Al-Ani, Darren Almond, Giovanna Amoroso & Istvan Zimmermann, Anonimi del paleolitico inferiore, Anonimo del paleolitico superiore, Aristide Antonas, Riccardo Arena, Kader Attia, Francis Bacon, Babi Badalov, Fayçal Baghriche, Francesco Bertelè, Rossella Biscotti, Björk, Umberto Boccioni, Kerstin Brätsch, Cai Guo-Qiang, Julian Charrière & Julius von Bismarck, Ali Cherri, Analivia Cordeiro, Isabelle Cornaro, Vincenzo Maria Coronelli, Hanne Darboven, Pippo Delbono, Marcel Duchamp, Marlene Dumas, Jimmie Durham, Olafur Eliasson, Federico Fellini, Didier Fiuza Faustino, Lucio Fontana, Carlos Garaicoa, Adalberto Giazotto, Arash Hanaei, Camille Henrot, Thomas Hirschhorn, Joakim, Polina Kanis,Tadeusz Kantor, Tigran Khachatryan, Robert Kusmirowski, Andrey Kuzkin, Volodymyr Kuznetsov, Suzanne Lacy, Ahmed Mater, Boris Mikhailov, NASA, Henrique Oliveira, Lydia Ourahmane, Pëtr Pavlensky, Gianni Pettena, Agnieszka Polska, Pablo Picasso, Pussy Riot / Taisiya Krugovykh, Qiu Zhijie, Józef Robakowski, Batoul S’Himi, Fari Shams, Santiago Sierra, Hiroshi Sugimoto, Luis Urculo, Emmanuel Van der Auwera, Ekaterina Vasilyeva & Hanna Zubkova, Andy Warhol, Ingrid Wildi Merino, Andrzej Wróblewski, Alik Yakubovich, David Zink Yi.
Se qualcuno ha avuto la pazienza di leggere l’elenco sopra, avrà notato spiccare nomi di livello che effettivamente sono presenti con opere decisamente rappresentative.
Al Pecci di Prato ci si può rendere conto personalmente di come sia in realtà molto più piccolo di quanto immaginato “Lo Scolabottiglie” di Duchamp (1887- 1968) del 1914 e la sua “Ruota” dadaista del 1904, quanto calore emanano ancora le pietre scolpite a punta di lancia dagli uomini del paleolitico ordinate in una teca rispetto a tutto il resto, tanto che se ne vorrebbe avere una in prestito mentre visitiamo le altre sale, tranne che per quella dove staziona la calorosa, originale scultura futurista di Umberto Boccioni “Forme Uniche Della Continuità Nello Spazio” del 1913, vero e proprio capolavoro che da sola vale il prezzo del biglietto di 10 euro.
In un angolo accantonati assieme, tutti questi tesori posano con aria stizzita nei confronti delle opere di nuova generazione esposte che probabilmente non passeranno alla storia, con accanto una gialla ”Attesa” di Lucio Fontana e una “Venere” in pietra dell’età paleolitica.
Confrontata a loro, il resto della mostra diventa puerile, ma il dado è tratto e così conviene continuare il percorso e non è poi detto che non ci siano sorprese. Superato l’immenso albero ricostruito da Henrique Oliveira, percorribile dall’interno in una sorta di allegoria di passaggio dal mondo reale al mondo metafisico dell’Arte, si arriva nella grande sala, dove, la cosa che più ci colpisce è un cumulo di macerie che scendono dal soffitto, tra l’altro appena restaurato del nostro museo…. perplessità… infatti non è che un’installazione dello svizzero Thomas Hirschhorn, che ci presenta a suo modo un varco temporale (da cui però arrivano macerie…)”Break Through“.
Sollevati per una volta che ciò non sia frutto del solito modo di fare le cose “all’italiana” ma sia questa volta colpa di uno svizzero, ci guardiamo intorno per capire: c’è molto da vedere, non molto da gustare. Poi veniamo a sapere che effettivamente, prima dell’inaugurazione il soffitto in cartongesso in una sala è crollato e ritorniamo al nostro pensiero originario, lo svizzero ha solo sfruttato l’idea per la sua installazione.
Ma l’incarnazione del sogno di molti è lì vicino, nell’opera dell’americano Jimmie Durham, un ufficio con tanto di stampante, scanner e quell’oggetto che ha raccolto in pochissimo tempo da quando è stato inventato la maggior parte degli improperi scanditi sulla terra: il computer. Finalmente ricoperto da chili di polvere, inutilizzabile e presumibilmente inusato da moltissimo tempo, può suscitare gioia oppure sgomento, per chi ne è ormai assuefatto. Il suo significato ci ricorda il titolo della mostra, così Durham si immagina la sua visione della fine del mondo. A meno che non siano invece dei calcinacci veri a sovrastarlo, anche qui provenienti da un soffitto traballante….Il dubbio ci viene.
Tra giochi di parole e di immagini, richiami estetici di epoche passate, rielaborazioni, foto di tramonti in bianco e nero, ritratti e spiegazioni cabalistiche matematiche che riempiono intere pareti, tralasciamo la stanza delle dodici betoniere disposte ad orologio (dove è avvenuto davvero il crollo del soffitto) “Clokwork” di Julian Charrière e Julius Von Bismarck senza farci toccare dalla sua allegoria da cui dissentiamo e avanziamo su quelle che sembrano costellazioni calpestabili di Carlos Garaicoa e che invece vorrebbero ricreare una veduta dall’alto delle terra. Osserviamo incuriositi i cellulari cristallizzati di Thomas Hirschhorn e troviamo un Bacon d’annata, non dei migliori ma pur sempre un Bacon (1909-1992) originale: “Study For A Portrait” del 1961.
Un Igloo dall’aria inquietante con pareti di cartone tutto da scoprire sorge improvviso, come appare dal nulla un muretto a secco di Gianni Pettena; più avanti, poco meno di una dozzina di fantoccini seduti in banchi di scuola antichi formano l’installazione-performance “dedicata a La Classe Morta” di Pippo Delbono) e si può vedere l’ultimo lavoro video della cantante Björk.
Non mancano certo i consueti sgabuzzini dove artisti tra cui Pëtr Pavlensky, raccontano, sempre troppo poco ascoltati, crimini di semidittature, inquietanti foto di denuncia sociale e tutto quello che interessantissimo, (andatelo a vedere) è consuetudine trovare in una buona mostra di Arte contemporanea degna di questo nome.
Non accenno nemmeno a scrivere dei vari moventi che hanno animato i tanti artisti nella loro opera di propaganda, a volte ingiustificata e sterile, altre volte molto seria e necessaria, sarebbero troppi ma, osservandoli, mi accorgo che i qui presenti hanno una caratteristica comune: il non suscitare in verità un vero interesse in chi passa, ovvero, il non attrarre, il non suscitano quella passione indagatrice che dovrebbero, per poi comunicare il loro significato, leggero o profondo che sia. In verità si fa fatica ad esserne interessati.
Si fa fatica ad appassionarci al video della brasiliana Analivia Cordeiro, dove vengono riprodotti attraverso una tecnica innovativa, i movimenti del corpo umano nella danza, stilizzati ed estremizzati per aumentarne il potere comunicativo gestuale, si fa fatica ad appassionarci allo stanzone riempito di sedie bianche con mobilio in tinta del polacco Robert Kusmirowski, anche se ne recepiamo il messaggio.
Si fa fatica a trovare qualcosa che rompa il gelo che appartiene anche a questo bellissimo museo che, come molti altri assomiglia sempre di più ad un asettico ospedale invece che ad un luogo di scambi di vitalità, cultura, calore, esaltazioni dell’intelletto e della passione umana.
A salvarci dal gelo razionale monocromatico, arriva stranamente un russo, Andrey Kuzkin, giovane artista che presenta foto e un video delle sue performance più recenti: “The Phenomenon Of Nature“. Ma è soprattutto la magnificente installazione di Cai Guo-Quiang (1957 Quanzhou, Cina) che ci colpisce: “Head On”, presentata per la prima volta nel 2006.
99 lupi a grandezza naturale realizzati in pelle di capra un po’ alla buona, che formano uno sciame volante assemblato e lanciato con la finalità di abbattere una massiccia lastra di vetro che nonostante le capocciate, sembra resistere.
Spettacolare, colpisce non tanto per il caparbio significato politico-etnico-culturale-economico e l’analisi di una determinata visione della contemporaneità, quanto perché opera di ricercato effetto che offre piacevoli sensazioni alla vista e, in un museo di Arte, questo non guasta.