Nicola Samorì, artista classe ’77 nato a Forlì, è certo un virtuoso del pennello. Alla 56’ Biennale di Venezia espone alcune sue opere che non lasciano dubbi.
La fascinazione che evidentemente lo prende e lo trasporta nel suo mondo pittorico causale delle sue opere, è dovuta certamente all’amore per l’Arte classica. Samorì parte da questa, dalla figura, dalla pittura cinquecentesca fatta di velature e di trasparenze, di membra dipinte nella penombra con finezza e destrezza per poi arrivare a contestualizzarle in modo anche dispregiativo nel contemporaneo.
Si avverte una voglia di distruzione, di sopraffare o sorpassare, un manifesto disprezzo per le opere del passato ormai non più comunicative e complete contestualizzate ad oggi, anche se le sue bellissime tele che riprendono il gusto di un Tintoretto o di un Tiziano ultima maniera, riescono a non sfigurare nel confronto.
Ma la spinta distruttiva è inevitabilmente protagonista, come se dopo essere arrivato a riuscire a rappresentare parte dei suoi miti pittorici, volesse umiliarli mutilando le tele prova di tanto traguardo.
Samorì, con un gusto sadico, le accartoccia, lasciando alla vista quel tanto che basta per deliziare lo spettatore con brani di ottima pittura per poi negargli la visione completa dell’opera, si lascia invece vincere dall’ansia creativa contemporanea che ci impone di contestualizzare nel nuovo millennio il nostro prodotto artistico.
Si scoprono così accostamenti impensabili tra la pittoricità finissima cinquecentesca e la matericità di un Burri, lo spazialismo che va oltre la materia e la tela di un Fontana e accenni Dada. Le opere corrotte dal contemporaneo, mostrano i segni di un percorso di unione tra l’epoca rinascimentale e quella moderna, tralasciando invence tutto ciò che c’è in mezzo.
Artista sicuramente interessante, uno di quelli che lascia in sospeso la possibilità di assaporare le sue opere, uno di quelli che mantiene intatto il suo mistero, donando se stesso senza svelarsi mai a pieno.