Perché piacciono i quadri di Zoran Music? Nei quadri di Zoran Music c’è un altro universo, lo si avverte e questo affascina, ci istiga ad entrarci a condividere con loro emozioni nuove, terribili o gradevoli, certo sconosciute.
Anton Zoran Music (1909-2005), pittore sloveno, è uno di quegli artisti che ha vissuto avvenimenti esistenziali particolari, la sua storia umana lo ha differenziato nella sensibilità e gli ha dato una forte ragione tematica, ma soprattutto una diversa valutazione del nostro universo scoprendone nuovi abissi e vette inesplorate.
E’ nelle rappresentazioni dei suoi “cavallini” che notiamo questa originale interpretazione della realtà filtrata da chi della nostra realtà ha approfondito soprattutto determinati aspetti.
Un soggetto così semplice, trattato con una predisposizione stilistica per la stilizzazione, un gusto per le tenui tinte pastello mescolate con grigiori esistenziali, fanno dei suoi quadri con i cavalli dalmata, delle opere eteree. Irriconoscibili, come offuscati nella memoria di un sogno che fu e che fa adesso fatica ad essere ricordato, i cavallini dalmata si affacciano nel ricordo di tempi più felici, di paesaggi liberi, un ricordo che è appannato dalla condizione presente o dagli avvenimenti che poi si sono susseguiti.
La sensazione che si avverte vedendo i “cavallini” di Music affascina per il suo sapore romantico e riesce a non far distogliere gli occhi da un soggetto non particolarmente curato o complesso ma che palesemente nasconde altro.
La grigia ombra che pende su questo ciclo di opere si rivela poi nel ciclo successivo “Non Siamo Gli Ultimi”, una serie di disegni e dipinti che fece dal 1970 al 1976, dove rappresenta con tutta la drammaticità possibile la condizione esistenziale nei campi di concentramento durante l’ultimo conflitto mondiale.
Music fu arrestato e spedito a Dachau per attività sovversive nel 1944, vi rimase per circa un anno prima di essere liberato. Senza mezzi termini Music disegna su semplici fogli di carta a carboncino o sanguigna cadaveri, enfatizzati da pochi smorti tocchi di colore, montagne di cadaveri, cadaveri in fila, un cadavere solitario con la bocca spalancata, denutrito, distrutto , de-umanizzato.
Tutta la produzione di Music che non sia la rappresentazione dei suoi “cavallini” ricorda nei colori, nel segno, le opere che ritraggono i cadaveri visti a Dachau, perfino nella ritrattistica si avverte una angosciante presenza, come se i soggetti fossero fantasmi abbrutiti e non uomini di carne e vita.
Potremmo a questo punto sorvolare con la fantasia le peripezie mnemoniche e analizzare la stilizzazione dei suoi “cavallini”, trovarli in verità simili a quelli rinvenuti in alcune delle pitture rupestri, oppure potremmo considerare una analisi psico-anatomica dei soggetti per capire quali sono stati i motivi che hanno spinto Music a dipingerli con una evidente stilizzazione che tende a rimpicciolire le zampe, per segnalare un contatto interrotto con la terra madre, e la testa infantile, per rappresentare la parte onirica dei ricordi d’infanzia. Potremmo disquisire sul fatto che tutto ciò tende a risaltare il manto del corpo dipinto innaturalmente con motivi ludici, potremmo incantarci a guardare la piccola mandria e accorgerci che in realtà non pascola ma sale, in un ipotetico, tranquillo viaggio verso il cielo, quello che è mancato a tanti suoi compagni di sventure. Potremmo ma non è necessario.
Continuiamo a godere dei tenui “cavallini” al pascolo come se il ricordo di Music ce li volesse rappresentare come lui li vide nella sua infanzia, consci di quale triste segreto nascondono nei loro toni rarefatti, gassosi, grigiastri.
Il segreto dei “cavallini” di Music è la loro tragicità, contraddittori portatori di emozioni, sono il simbolo del ricordo felice a cui l’uomo si aggrappa quando è preda di un terribile destino.