Lo studio della luce è una costante dell’Arte sia figurativa, sia scultorea, sia nelle istallazioni, ma anche nelle scenografie teatrali, nell’architettura e in tutto ciò che ovviamente ha a che fare con una percezione visiva. L’evoluzione tecnologica ha portato a fenomeni artistici dove la luce è diventata protagonista indiscussa, quasi sprecata nel dover forzatamente interpretare disegni più o meno interessanti, perché già da sola, anche scevra di cromie decorative ha la forza espressiva per diventare soggetto unico.
Già negli anni ’50 Lucio Fontana (1899-1968) interpretava nuove scoperte tecniche in chiave artistica dando origine alla serie di “Strutture al Neon“, oggetto allora innovativo, con forme fluttuanti che ne esaltassero l’evanescenza luminosa e nel ’51 li presentava alla IX° Triennale di Milano. Su questo percorso si inserisce la ricerca di Carlo Bernardini artista di Viterbo del 1966.
Dalle prime pitture astratte degli anni ’90, Carlo passa ad uno studio sulla rifrangenza luminosa ancora ancorato alla materia pittorica, dando vita ad una serie di quadri su cui strati di velature lasciano intravedere nel buio, segni tracciati in materiale fluorescente. La dualità della lettura delle opere nelle versioni illuminata-non illuminata è il loro presupposto base esistenziale, espediente in seguito molto usato ed imitato.
Nel ’97 pubblica lo scritto “Divisione dell’unità visiva”, considerazioni sullo studio della luce, il visibile, l’invisibile, l’illusione della visibilità e la loro percezione.
Ma è nel 2000 che decolla vincendo il premio “Overseas Grantee” della Pollock Krasner Foundation di New York e ripetendosi poi nel 2005.
Carlo Bernardini inizia a servirsi delle fibre ottiche, fasci di luce con cui crea istallazioni minimaliste in ambienti di vario genere. L’espressione luminosa si esalta infatti in determinate circostanze, appoggiata sia dal buio ma anche da strutture architettoniche preesistenti.
Hanno grande successo le sue installazioni in piazze, palazzi antichi, fabbriche dismesse. Di particolare interesse è il passaggio ad una contaminazione spaziale con i fasci luminosi che attraversano l’acqua per poi ricomporsi al di sopra in figure geometriche.
L’affascinante espediente tecnologico è usato in modi ricercati non convenzionali così da non essere fine a se stesso ma per quantificare una valenza estetica formale. Nel tempo la sua tecnica si affina inserendo elementi riflettenti, inglobando le fibre ottiche in contenitori, originando le “Light Waves” vere e proprie sculture di luce, lightbox dove l’essenza luminosa si mostra pura, unica protagonista e dove la forza generatrice è nascosta.
Da una purezza geometrica del disegno spaziale, Bernardini arriva ad ottenere una scompostezza delle linee grazie ad una maggiore padronanza del mezzo tecnico, che si aggrovigliolano perdendo la simmetria inizialmente professata per arrivare ad incurvarsi in improbabili formazioni segniche di pregevole effetto.
Sempre scenografica, la sua opera non prescinde mai dal mezzo impiegato, unico vero protagonista di tutta la sua produzione.